Pubblichiamo l’intervento della nostra fondatrice, Amelia Massetti, dall’ultimo incontro di Artemisia, incentrato sul tema della diversabilità all’interno della famiglia. Una testimonianza che racconta con la massima trasparenza il percorso di una madre verso l’accettazione completa del proprio figlio.

Muore il mito del bambino perfetto tanto sognato nella gravidanza

Nella fase iniziale, quando una madre viene a conoscenza che suo/a figlio/a ha una disabilità, si sente stordita e non crede a quello che le viene detto.
Si pensa che forse non sta succedendo a noi, in qualche modo non si realizza da subito la realtà che si presenta davanti ai nostri occhi. Si cerca di negare la disabilità del proprio figlio/a, pensando e credendo che ci sia un errore da parte dei medici.

Il tutto acquisisce il carattere dell’imprevisto, non si era preparati a questa eventualità, quindi si prova sorpresa per la notizia, con tutta probabilità la coppia non aveva pensato a fare dei controlli prenatali. Improvvisamente cadono le speranze e i sogni, che generalmente si fanno quando si aspetta un figlio, crollano le fantasie di colui che doveva realizzare il nostro sogno di generare vita, cade il mito.

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Cosa succede alla madre

La madre si sente incapace di procreare un figlio/a sano/a, viene messa in discussione la sua capacità procreatrice e quindi anche di fronte al padre perde la sua sicurezza di donna in grado di mettere al mondo un figlio sano.
La donna si sente principalmente responsabile della disabilità del figlio/a, e colpevole di non aver regalato la gioia di un figlio/a sano/a al suo uomo.
Il dolore che prova la madre, nell’aver generato un figlio diversamente abile, crea confusione e scompiglio, la porta ad aver bisogno di un periodo d’isolamento per potersi adattare e superare il dolore della nascita, talvolta entra in depressione.

Cosa succede al padre

Il padre sente di perdere la sua capacità di procreazione, la sua sicurezza maschile viene messa in discussione. Sente che la sua donna lo ha deluso. Prende atto della situazione e talvolta fugge nell’attivismo frenetico, cercando di compensare il vuoto che si è venuto a creare. Si assume la responsabilità materiale della famiglia, considerandola una necessità primaria, per sopperire alle cure e ai sacrifici che dovrà sostenere per fronteggiare la situazione.
Generalmente si autoesclude dal prendersi la responsabilità della cura del proprio figlio/a, delegandola alla madre.

Presa di coscienza della disabilita del figlio/a

Si prova rabbia mista al dolore, cercando il colpevole di questo evento che ci ha colpito imprevedibilmente. Si additano a forze magiche e soprannaturali la responsabilità dell’accaduto (nella cultura greca kalòs kai agathòs, “bello e buono”, erano considerati gli ideali da raggiungere, mentre la bruttezza e la malattia erano accostate alla colpa e a una maligna volontà divina). Gli Dei avrebbero influenzato, durante la gravidanza, la madre, con poteri occulti; oppure si indica la responsabilità nei medici, che non hanno adottato le relative misure preventive in modo da mettere in guardia la Madre di fronte al rischio, oppure sono stati responsabili, talvolta a ragione, durante il parto, di aver eseguito manovre sbagliate per fare nascere il bambino/a.

Si prende atto che la società non si assume le sue responsabilità, ci si sente soli di fronte al mondo. La comunità non è pronta ad accettare il figlio/a disabile e quindi non accetta neanche il genitore con il suo carico ingombrante.

Personalmente non ho guardato per anni alla diversità di mia figlia,l’ho guardata con gli occhi di una madre che vede sua figlia per quello che è, dimenticando confronti e paragoni che spesso si sentono dire dalle madri: “il mio ha camminato a sette mesi o ha cominciato a parlare ad un anno…” e via dicendo. Questo non mi interessava, per me ogni traguardo che lei faceva era una conquista importante per entrambe, che mi rendeva felice al di là del tempo che aveva impiegato per raggiungerlo.

Si cercano specialisti nella speranza che possano aiutarci a trovare la soluzione o che ci diano le indicazioni necessarie per capire come dobbiamo comportarci con nostro figlio/a, perché siamo impreparati talvolta anche a compiere determinate azioni, o a capire le sue reazioni che non sono quelle comuni a cui si è abituati. Lia (mia figlia) per esempio non piangeva o non sentiva il dolore fisico, per cui bisogna attivare un istinto e capacità di comprensione differente.
Si accentua la capacità intuitiva della madre che nel tempo impara a capire i segnali del figlio/a, che non può comunicare i suoi pensieri, i sentimenti, le difficoltà.

Quando si è feriti dalla diversità, la prima reazione non è di accettarla, ma di negarla. (Nati due volte, G.Pontiggia)

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Il rapporto di coppia si trasforma

Il rapporto si trasforma, l’altro è colpevole in egual misura del nostro dolore e non può consolarci per questo, non può essere colui che ci conforta perché il dolore è reciproco e non possiamo consolare il dolore del nostro compagno/a.
Si rifiuta il dolore e la disabilità del figlio/a per non affrontarla in modo diretto e consapevole.
Si attiva un rapporto salvifico in cui il genitore si sente l’eroe in grado di salvare il figlio/a da una società che lo/a rifiuta, si crea un rapporto a senso unico di protezione.
Si accentrano tutte le energie della famiglia, anche dei fratelli e sorelle, e parenti vari,qualora ce ne siano, sul figlio/a diversamente abile. Lui o lei è il fulcro intorno a cui ruota tutto il sistema familiare, il resto viene messo da parte.
Viene a mancare il rapporto di coppia originario e si crea soltanto un rapporto genitoriale, non si è più una persona in quanto tale.
Gli altri figli, considerati più forti e capaci di crescere autonomamente, vengono esclusi e considerati solo come supporto e aiuto per la cura del fratello o sorella diversamente abile.

Riorganizzazione della vita familiare

La famiglia, prima della nascita del figlio/a diversamente abile, aveva dei ritmi e delle funzioni ben precise, dopo la sua nascita, o anche quando la disabilità si riscontra nel tempo, a causa di una malattia o di un’incidente, gli equilibri si alterano e si passa attraverso una fase di assestamento e riorganizzazione del tempo. Il figlio/a necessita maggiori cure ed attenzioni per motivi vari, tra cui le cure specialistiche o le terapie, quindi anche i tempi di accompagnamento e anche il cercare di capire la disabilità del proprio figlio/a significa impiegare tempo per raccogliere le informazioni ( considerando che questo, emozionalmente, è un grande carico psico-fisico per il genitore).
Nel ridefinire le responsabilità spesso succede che sia la madre a rinunciare al proprio lavoro, per dedicarsi al figlio/a, altre volte succede che la coppia si separi perché non ce la fa a costruire la famiglia diversa da quella che si era immaginata e i sentimenti di rabbia e frustrazione possono portare a una separazione.

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Adattamento-vergogna-imbarazzo

Con il tempo si prende coscienza della diversità del proprio figlio/a, soprattutto quando inizia il periodo scolastico, in cui le differenze si accentuano e si vede chiaramente che il proprio figlio/a non riesce ad avere gli stessi tempi di apprendimento che hanno gli altri, quindi iniziano i sentimenti di vergogna, soprattutto quando ci vengono poste domande imbarazzanti da altri bambini/e a cui non si è pronti a rispondere.

Si nota che i rapporti tra gli scolari normodotati e il proprio figlio/a non sono dettati da uno scambio libero e aperto, ma necessitano della guida dell’adulto. Questo può creare imbarazzo perché ci si ritrova a chiedere talvolta aiuto indirettamente alle altre famiglie o agli insegnanti perché non dimentichino l’esistenza del proprio figlio/a e lo si renda sempre più partecipe alle attività socio-ludiche.

Talvolta si prova vergogna, perché il proprio figlio/a assume atteggiamenti imbarazzanti o troppo diretti che lasciano le persone sconcertate. Urla fuori dal comune, ha manifestazioni d’affetto eccessivo, atteggiamenti carichi di spontaneità che non corrispondono all’età evolutiva del bambino/a.
Si cerca di evitare questi confronti perché sono spesso dolorosi e ci si chiude pertanto nell’isolamento. Il peso del confronto con le altre famiglie, che sono felici e hanno problemi completamenti diversi, diventa talvolta insostenibile.

Si coltiva il proprio dolore, perché ci sente portatori di sventura per se stessi e per gli altri, le antiche credenze influenzano l’inconscio collettivo, e questo lo si percepisce. Pertanto si cerca di fare il possibile per migliorare la situazione di nostro/a figlio/a facendo tante cose o provando a risolvere svariati problemi fino allo sfinimento.
Non si chiede conforto agli amici, non si vuole dar loro il carico che ci portiamo sulle spalle e non crediamo che possano capirci, né vogliamo essere di peso.
Non si prova ad avere una vita piena, confortante e felice, perché crediamo di non meritarcelo, in qualche modo ci sentiamo direttamente responsabili per quello che è accaduto e ci si abbandona a un destino che ci segnerà per tutto il resto della vita.

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“Adolescenza senza adolescenza” Montobbio 1980

Il genitore di un figlio/a diversamente abile, non finisce mai di essere genitore perché se il figlio/a ha una disabilità grave non potrai mai avere un distacco totale dal genitore, per cui rimarrà sempre un figlio/a dipendente dalle decisioni della famiglia.
La genitorialità si protrae negli anni. Il rapporto di cura quotidiano porta a una maggiore propensione genitoriale nel confronto del figlio/a, essendo il suo sviluppo prolungato nel tempo. Il genitore occupa un ruolo determinante nello sviluppo del figlio/a che fatica a lasciare, perché ha condiviso un arco di tempo infinito con lui/lei, assorbendone completamente la personalità su se stesso.
Il vincolo genitoriale non si rompe così facilmente, il figlio/a non si libera dal rapporto genitoriale in modo autonomo, la sua indipendenza è determinata dalla capacità e decisione del genitore, a rompere il legame familiare.

Sentimenti contrastanti

Si prova invidia nei confronti delle “altre” madri che hanno un figlio/a sano/a. Nasce un conflitto con se stessi perché si prova questo sentimento, naturalmente umano. Ma la nostra ferita non ci permette di vedere che anche l’altro, forse, non è necessariamente felice solo perché ha un figlio/a abile. Nel tempo, quando si riesce a vedere il proprio figlio/a in tutta la sua pienezza, e a riconoscerne le emozioni positive, che sicuramente ci ha regalato, allora possiamo vedere la sofferenza delle “altre”madri che combattono con i propri figli e spesso non hanno riposte adeguate ai problemi che il figlio/a pone.

La pietà è un sentimento con cui ci confrontiamo ogni giorno, quando si esce per strada, o in viaggio, in qualsiasi luogo pubblico. La si scorge negli occhi degli altri che ci guardano e provano pena. Talvolta c’infastidisce perché non sempre soffriamo.
Abbiamo momenti di gioia con nostra/o figlio/a, ma questo gli altri non lo sanno. Quindi la pietà, se da una parte è umana, d’altro canto ci ricorda la nostra condizione di sofferenza.

Anche nella propria famiglia si provano gli stessi sentimenti d’invidia per gli altri fratelli o sorelle, che non si sono trovati nella nostra stessa situazione, e che provando pietà per noi, ci ricordano che siamo in un’altra condizione emotiva, facendoci sentire inadeguati difronte a tante circostanze.

Sentimenti che si sviluppano

Ci si esclude perché si ha paura di disturbare coloro che hanno e che vivono in modo apparentemente felice, e portandosi il proprio bagaglio di sofferenza si ha paura di creare disagio anche agli altri, e questo porta all’emarginazione.
Non si riesce a condividere il proprio bagaglio di sofferenza e di dolore con coloro che non la provano.
Si tende a chiudersi in un mondo in cui esiste solo la madre e il proprio/a figlio/a, come risposta ad una società che non include, tutelando una sfera privata che comunque funziona al di là delle regole prestabilite.

Nasce la paura di non riuscire ad affrontare la disabilità del proprio/a figlio/a, talvolta non si hanno gli strumenti necessari, e si prova un senso di impotenza di fronte alla sua diversità.
Il conflitto si crea quando si provano sentimenti negativi nei confronti del proprio/a figlio/a responsabile del nostro dolore e quindi lo si odia, ma nello stesso tempo questi sentimenti umani ci creano conflitto perché vorremmo non provarli.

Se riflettessimo più lucidamente, questi sentimenti in realtà vengono provati da qualsiasi madre, perché il rapporto materno è di per se un rapporto sia d’amore che d’odio, non è mai a senso unico.

Relazioni con le madri di figli normodotati

Le madri di figli disabili non riescono a condividere il senso di frustrazione con le altre madri per diversi motivi. Alcuni di questi possono essere la sensazione di non essere capite, in quanto le problematiche sono completamente diverse.

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Mentre le “altre” madri condividono i momenti di crescita o le piccole sconfitte dei propri figli, le madri dei figli disabili hanno nella maggior parte dei fallimenti o sofferenze che non possono essere condivisi con le “altre” madri. Questo è naturalmente un limite reciproco dovuto anche all’incapacità, da parte delle madri di figli normali, a non capire il mondo complesso della madre di un figlio/a diversamente abile. Talvolta esiste un’oggettiva differenza di fondo.

Naturalmente ci vuole una grande sensibilità e apertura mentale per capire i problemi altrui e poterne districare le svariate sfaccettature.
Dall’altra parte la madre del figlio/a disabile ( se ha solo un figlio/a diversamente abile, come nel mio caso ) non riesce a capire i problemi delle “altre” madri, considerandoli irrilevanti. Crede che la condizione stessa di avere un figlio/a abile, porta con sé completezza e soddisfazione. Anche questo in realtà non è vero. Esistono tante madri di figli abili che hanno problemi spesso più complessi da gestire. Avere un figlio/a abile non è la garanzia di felicità. Purtroppo, nella fase dolorosa dell’accettazione del proprio/a figlio/a diverso, questo si tende a non vederlo.
Mentre da parte loro, le madri, nel vano tentativo di sostenere l’animo della madre del figlio diversamente abile, cercano di sminuire i problemi che lei indica, rendendo ancora più complessa la comunicazione tra di loro.

Fase di Adattamento

Col tempo ci si abitua alla disabilità del figlio/a e si impara a conviverci, scoprendo energie positive sconosciute prima d’allora. Si cresce insieme con il figlio/a imparando a rispettarne i tempi, diversi dagli altri. Si trovano soluzioni che possano aiutarlo/a a sviluppare al meglio la sua personalità e si riesce col tempo a convivere con la sua diversità.
Le conoscenze che acquisiscono tali genitori, rendono una consapevolezza e capacità di districarsi anche in altre situazioni di crisi o di emergenza, che possono essere col tempo d’aiuto anche per altre persone.
Si apprendono, involontariamente, doti sconosciute e capacità di resilienza che rafforzano la propria personalità.

Queste energie positive, si riscontrano solo nel tempo e aiutano la famiglia o la madre a cercare soluzioni sempre migliori per rendere la vita del proprio/a figlio/a qualificante e dignitosa.
Spesso si iniziano contatti con altre famiglie e associazioni per migliorare la qualitá della vita delle persone diversamente abili e si diventa promotori di lotte per i diritti degli stessi,  valorizzando l’impegno personale, mettendolo a disposizione della collettività.

I bambini disabili nascono due volte. La prima li vede impreparati al mondo. La seconda è affidata all’amore e all’intelligenza degli altri.
(G.Pontiggia “Nati due volte”)

Le persone diversamente abili nascono due volte. La prima significa nascere in un mondo che non è preparato per loro, e questo li rende ancora più fragili, rinascono e si sentono vivi nel momento che attraverso l’amore delle persone e l’intelligenza degli altri si sentono accolti e accettati per quello che sono, e da quel momento avviene una nuova nascita che è riconoscenza dell’essere per quello che si è.

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